Utilizzo di Facebook sul posto di lavoro: legittimo il licenziamento

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza n. 73/2016, ha respinto il reclamo proposto da Michela Guglielmi avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato l’impugnativa di licenziamento disciplinare proposta nei riguardi del datore di lavoro Giuliano Zuliani, nel cui studio medico la ricorrente aveva lavorato come segretaria part time.
La Corte, dopo avere escluso la ricorrenza di un licenziamento ritorsivo o discriminatorio, affermava, per quanto qui ancora interessa che, in punto di fatto, la Guglielmi non avesse negato di avere effettuato, in orario di lavoro, la gran parte degli accessi a siti intemet estranei all’ambito lavorativo riscontrati sulla cronologia del computer ad essa in uso, sottolineando come lo stesso tipo di accesso, con riferimento a facebook, necessitasse di password , e non potessero quindi aversi dubbi sul fatto che fosse la titolare dell’account ad averlo eseguito.
La dimensione del fenomeno, circa 6 mila accessi nel corso di 18 mesi, di cui 4.500 circa su facebook, per durate talora significative, evidenziava, secondo la Corte, la gravità di esso, in contrasto con l’etica comune, e l’idoneità certa ad incrinare la fiducia datoriale.

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La ricorrente, dinnazi alla Suprema Corte, denunciava l’errore in cui erano incorsi i giudici di merito per aver fondato la decisione di conferma del licenziamento, sulla base dei report di cronologia dei suoi presunti accessi a Internet: ciò sia per l’insufficienza di tale riscontro al fine di dimostrarne la genuinità e l’effettiva riferibilità ad essa, sia per la violazione delle regole in materia di tutela della privacy.

In ordine alla dedotta violazione della privacy, la Cassazione non si pronuncia, trattandosi di una questione introdotta per la prima col ricorso di legittimità e dunque inammissibile.
Quanto invece alla idoneità probatoria della cronologia (degli accessi a Internet), non vi sono dubbi: si tratta di elementi che possono rientrare nella formazione del libero convincimento del giudice di merito; la Corte d’Appello aveva ampiamente motivato, sostenendo che gli accessi alla pagina Facebook richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente.

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