Vino e acqua. Le nuove norme sulla dealcolazione dei vini

Poco più di un anno fa, il nostro export tirava un sospiro di sollievo alla notizia che Trump avesse abbandonato l’idea imporre dazi sui vini di provenienza italica. Trascorsero poche settimane e la pandemia assestò un colpo ferale alla bilancia commerciale ed ai consumi di vino.

Seguì la vicenda dei “semafori” e delle “batterie”. Dal luglio 2020, la legge francese per la modernizzazione del servizio sanitario, ha previsto un sistema di etichettatura nutrizionale sintetico, Nutri Score, negli intenti semplice (graficamente un semaforo) e dunque accessibile a tutti. Forse troppo semplice, ma certo di successo, nell’area commerciale del Nord Europa, con un’adesione progressiva di molti Paesi.

L’Italia con maggior attenzione, con decreto novembre 2020 (MISE) rettificò l’eccessiva semplificazione e introdusse un logo nutrizionale facoltativo, il Nutriform Battery, che immediatamente trovò il sostegno in altri sette Paesi dell’Unione. Pochi mesi e siamo all’alba del 202. La Direction Générale de la Santé (DGS), che ha fra le sue competenze anche la sicurezza alimentare, ebbe a lanciare il piano d’azione della Commissione Europea per la lotta al cancro (Europe’s Beating Cancer Plan) che introduce il sillogismo per il quale il consumo di alcol sia da considerare dannoso, senza ulteriore distinzione fra tipologia della bevanda e quantità di consumo.

Per il vino non c’è pace.

Da qualche giorno sulla mia scrivania sono posati gli articoli di stampa locale e nazionale che commentano la notizia: si potrà aggiungere acqua al vino, cosi dice l’UE. Ovviamente risuonano rumori di guerra, si alzano gli scudi, con le argomentazioni più varie e anche fantasiose. Lo stimolo ad intervenire (e precisare) arriva dalla lettura di questi giorni del report che arriva sul mio tavolo – destino – dal titolo “Opportunities for low and no alcohol wine in the canadian market”.

In Europa si stanno svolgendo le trattative tra Consiglio e Parlamento Europeo (ultimo incontro del 25 e 26 maggio) per la formulazione di una nuova Politica Agricola Comune (PAC) per il periodo 2022 – 2027: valore a bilancio, 350 miliardi di euro.

Un ambito di estremo rilievo all’interno della PAC è l’Organizzazione Comune dei Mercati (CMO): un insieme di regole che riguardano anche la commercializzazione e l’etichettatura dei prodotti alimentari. E siamo al dunque: nel CMO del prossimo quinquennio si sta discutendo se permettere di estendere la normativa sull’etichettatura dei vini DOP e IGT anche ai vini dealcolati.

Ma l’alcol è l’elemento costitutivo del prodotto al termine del processo di fermentazione delle uve. La definizione normativa del termine “vino” lo qualifica come il “prodotto ottenuto esclusivamente dalla fermentazione alcolica totale o parziale di uve fresche, pigiate o no, o di mosti di uve” (Reg. n. 491/2009). L’eliminazione totale o parziale dei suoi effetti, sotto ai limiti di legge (8,5% vol. in Italia), costituisce una pratica enologica che, se non espressamente ammessa, renderebbe illecita la produzione e la messa in commercio di siffatto prodotto.

Non dimentichiamo che la dealcolazione è pratica già oggi autorizzata nella UE (seppur con forti limiti per vini DOC e DOCG) con Regolamento CE n. 606/2009. Può solo essere parziale per un massimo di 2% gradi e un titolo alcolometrico minimo di 8,5% vol. Il regolamento citato precisa che i vini trattati non devono presentare difetti organolettici da correggere, non è consentita la dealcolazione per un vino arricchito e il trattamento deve essere indicato nel registro ed eseguita da un tecnico qualificato. Si tratta di una pratica molto complessa (1) e laboriosa; di conseguenza gli effetti sul vino non si limitano certo alla diminuzione del grado alcolico.

Fino a ieri era così, domani forse non più.

Leggiamo il working paper (2) del 16 aprile che ha come oggetto la modifica del Reg. UE n. 251/2014 sulla definizione, descrizione, presentazione, etichettatura e protezione delle indicazioni geografiche dei prodotti vitivinicoli aromatici.
In questa sede, il Comitato Speciale Agricoltura ha preso atto per comunicazione della Presidenza di un accordo raggiuto da Parlamento, Commissione e Consiglio che prevede che i vini DOP e IGP possano essere dealcolizzati. Il procedimento avverrà secondo processi e pratiche ancora da definire (mediante atti delegati ex art. 75, par. 2 del Reg. 1308/2013).

Sarà consentita – con modifica dell’Allegato VIII – la dealcolazione, parziale o totale, dei prodotti vitivinicoli, a condizione che i processi non siano operati su prodotti che presentino difetti organolettici e che il risultato finale non dia luogo esso medesimo a difetti organolettici. Soprattutto, l’eliminazione dell’etanolo non dovrà avvenire in concomitanza con l’aumento del tenore di zucchero nel mosto d’uva (un forte limite a pratiche fraudolente).

La discussione è destinata a proseguire sull’ipotesi di poter ripristinare il contenuto di acqua nei prodotti che sono stati dealcolizzati, certo. E fin qui si è soffermata la lettura (molto) sommaria di alcuni operatori e della stampa.

Decisamente più qualificante ma forse trascurato, è la richiesta – su cui alcune parti (Commissione e OIV) hanno insistito – che prevede l’integrazione dell’elenco delle pratiche enologiche consentite (art. 80 del Reg. n. 1308/2013). Nuove pratiche enologiche destinate a riequilibrare i vini dealcolati e garantire loro un gusto gradevole.

La proposta di modifica dell’art. 80 parla, più precisamente di “garantire la migliore qualità dei prodotti ottenuti dalla dealcolizzazione”. Ben facilmente si intuisce quanto sia ampio, oggi, de jure condendo, il margine di intervento delle “nuove” pratiche enologiche, e quanto queste possano allontanare il prodotto finale dalla definizione iniziale di prodotto vinoso.

Quali saranno i vini potenzialmente dealcolabili? Andando all’Allegato VII (3): quelli previsti al punto 1 (generalmente il vino), e dal punto 4 al 9 ossia i vini spumanti (anche nelle loro accezioni: di qualità, di tipo aromatico, gassificato) ed i vini frizzanti (anche gassificato).

Uno spettro decisamente ampio, forse troppo, che vede esclusi solamente i vini nuovi ancora in fermentazione, i mosti di uve (siano essi parzialmente fermentati, o concentrati, o concentrati e rettificati) , i vini da uve stramature o appassite. Ma all’interno della categoria generale di cui al punto 1, nulla viene individuato come dealcolizzabile con sottocategoria.

Per quanto riguarda l’etichettatura e alle indicazioni obbligatorie da riportare  (art. 119), la designazione della categoria del prodotto vitivinicolo che sia stato sotto posto al trattamento di dealcolazione avviene accompagnato dal temine “dealcolizzato” (allorquando il prodotto raggiunge un livello alcolometrico effettivo non superiore a 0,5% vol.) ovvero “parzialmente dealcolizzato” (allorquando il prodotto raggiunge un livello alcolometrico superiore allo 0,5% vol. e comunque inferiore al titolo alcolometrico che si aveva prima della dealcolizzazione).

L’etichettatura del prodotto dealcolato, si intuisce, giocherà un ruolo determinante agli occhi del consumatore e stabilendo limiti certi (e sanzionabili, de jure condendo) alla concorrenza sleale.

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Ci attende un sostanziale impoverimento qualitativo della produzione vinicola? Il procedimento legislativo europeo come cambierà la produzione ed il rapporto con il consumatore?

Il vino dealcolato costituisce già da tempo un’esigenza commerciale che si manifesta nelle indagini di mercato e sempre più allettante per i produttori, in particolare per coloro i quali puntano alla conquista di mercati nuovi, caratterizzati da ricchezza crescente e perduranti limitazioni alimentari dovute a fattori di vario genere, soprattutto religioso, come i paesi musulmani. Fino ad oggi queste esigenze, però, si erano infrante sugli invalicabili argini della legislazione nazionale ed europea, a partire dalla definizione normativa del termine “vino”.

Ciò detto, non dimentichiamo le premesse da cui siam partiti: è cambiato profondamento l’approccio all’alimentazione, in tutti i suoi componenti e il vino non è più una bevanda, è un alimento (art. 2 Reg. 178/2002). Il consumo viene valutato con occhi nuovi: nei suoi indici di crescita in alcuni Paesi europei, specie del Nord; nei suoi indici di crescita nel consumo lontano dai pasti; nell’aumento della gradazione alcoolica media.

Il processo legislativo europeo legge le esigenze e le tendenze del consumo, predisponendo un assetto normativo che, a una lettura disattenta e perciò approssimativa, può apparire irragionevole ed irrispettosa dell’identità nazionale ma in realtà anticipa e pianifica la produzione innovativa, ponendo le basi per una leale concorrenza fra gli operatori globali del beverage. Dunque direttamente tutela la produzione tipica, avviando se tempestivamente recepito il processo per la regolamentazione nazionale, volendo anche di maggior rigore, affidata non da ultimo alle disposizioni dei disciplinari di produzione.

Il bicchiere, come sempre in questi frangenti, è ancora mezzo da riempire.

Avv. Fausto Fogliati

(riproduzione riservata)

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